sabato 13 aprile 2024

PERCHE' SIETE TURBATI ?


III Domenica di Pasqua 

Il brano di vangelo di questa domenica è la versione di Luca del racconto di Giovanni letto la scorsa settimana.

Si possono, infatti, riconoscere elementi comuni tra i due testi: il saluto riconciliante di Gesù «Pace a voi!»; la richiesta di guardare le sue mani e i suoi piedi; l’invi(t)o finale a predicare «il perdono dei peccati».

Vi sono, tuttavia, anche delle peculiarità.

In particolare, l’evangelista Luca, oltre a mettere in evidenza la gioia dei presenti – come aveva fatto Giovanni –, sottolinea anche altre concomitanti reazioni: si dice che i presenti erano «sconvolti e pieni di paura» e «per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore».

Sentimenti contrastanti abitano, dunque, i discepoli dopo la risurrezione: gioia, certo. Ma una gioia per la quale «non credevano» e poi paura, tanta paura (erano «sconvolti e pieni di paura») e turbamento. Tanto che Gesù stesso se ne accorge: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore?».

La fede nella risurrezione non è, dunque, stata immediata e nemmeno scontata.

Questo elemento non va considerato come la reazione degli uomini (limitati, goffi, sempre un po’ inadeguati davanti al divino) alla rivelazione di Dio (chiara, limpida, inequivocabile).

Il racconto della fatica di riconoscere, incontrare, relazionarsi col risorto fa ancora parte della rivelazione di Dio.

Fa ancora parte dei vangeli la narrazione del faticoso cammino dell’uomo per accedere alla comprensione, all’incontro e alla relazione col risorto.

Come a dire: non è successo quella volta e basta. Non è che i discepoli hanno fatto la fatica di credere alla risurrezione una volta per tutte, una volta per tutti. Non è che è solo loro l’esperienza dell’essere sconvolti, di avere paura, di provare gioia, di non credere, di essere atterriti e dubbiosi. Il percorso che ci descrivono non è narrato per dire: bene, noi abbiamo fatto questa fatica e ora vi consegniamo il risultato finale, la fede nel risorto, prendetela per buona e state sereni.

Loro raccontano, piuttosto, il loro itinerario perché ciascuno possa percorrere il proprio.

Noi, però, non siamo tanto abituati a far questo. Abbiamo per lo più ricevuto un’educazione cattolica in cui ci hanno servito il “piatto pronto”, il “prodotto finito” e ci hanno chiesto di prenderlo per buono, di ripartire da lì, di credere a ciò che altri hanno ottenuto come portato finale del loro percorso di vita, del loro itinerario di fede.

I vangeli invece erano stati scritti perché ciascuno ripercorresse la sequela di Gesù, perché ciascuno vedesse il volto di Dio che rivelava nelle sue parole, nei suoi gesti, nella sua morte di croce… e perché ciascuno si mettesse di fronte al risorto, passando attraverso la paura, i dubbi, la gioia, la domanda inespressa su “Chi è costui? Un fantasma? Un redivivo? Un’allucinazione?”.

Per arrivare a pronunciarsi – ciascuno/a – personalmente circa la propria fede.

Alzo gli occhi verso il  cielo

ALLE RADICI DEL GIUBILEO

 

«Il cinquantesimo anno sarà per voi un Giubileo; non farete né semina, né mietitura di quanto i campi produrranno da sé, né farete la vendemmia delle vigne non potate. Poiché è il Giubileo; esso vi sarà sacro; potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi»
(Levitico 25,11-12).



-    di Gianfranco Ravasi 

 Si è soliti far risalire la realtà germinale del «giubileo» al suono di un corno di montone: l’eco proveniva da Gerusalemme, squarciava l’aria e balzava di villaggio in villaggio. Ora, nel testo ebraico dell’intero Antico Testamento il termine jobel compare ventisette volte: sei volte non c’è ombra di dubbio che significhi il corno d’ariete, mentre nelle altre ventuno riguarda l’anno giubilare. La pagina fondamentale di riferimento è il capitolo 25 del libro del Levitico. Si tratta di un testo complesso, inserito nel libro dei figli di Levi, quindi dei sacerdoti, un libro cerimoniale, di normative minute e minuziose, che riguardano la ritualità propria del tempio di Gerusalemme.

Una premessa filologica 

Il termine jobel risuona soprattutto in quel testo, ma si trova anche nel capitolo 27. L’antica versione greca della Bibbia, detta tradizionalmente dei Settanta, trovandosi di fronte a questo vocabolo — jobel — anziché tradurlo col ricalco «giubileo», anno giubilare, l’ha tradotto secondo un canone interpretativo: áphesis, che in greco significa «remissione», «liberazione» o anche «perdono». Questo vocabolo sarà molto importante per Gesù perché — come vedremo — egli non parla di giubileo ma usa nel greco di Luca proprio il termine áphesis. Anzi, nel Nuovo Testamento non c’è mai la parola «giubileo». I Settanta, questi antichi traduttori della Bibbia sono, dunque, passati da un dato squisitamente cultuale sacrale (la celebrazione dell’anno giubilare che parte con il suono del corno dell’ariete in una data ben precisa, in connessione con la solennità del Kippur, cioè dell’Espiazione del peccato di Israele) a un concetto etico, morale, esistenziale: la remissione dei debiti, la liberazione degli schiavi (che era il contenuto del giubileo). Il tema del giubileo è stato, quindi, spostato dal linguaggio e dall’atto liturgico al linguaggio e all’esperienza etico-sociale. Questo elemento è rilevante anche oggi per non ridurre il giubileo cristiano solo alla pur basilare celebrazione o ritualità ma per trasformarlo in paradigma di vita cristiana. Alcuni studiosi hanno pensato che il termine jobel non sia da connettere al suono del corno d’ariete ma alla radice ebraica jabal, che significa anche «rinviare, restituire, mandar via». L’interpretazione appare però un po’ forzata perché quel «mandar via» non indica necessariamente la liberazione, non ha il respiro del citato termine greco áphesis, ripreso con una particolare sottolineatura proprio da Gesù. Altri tentativi di tipo filologico hanno offerto diverse spiegazioni, ma va riconosciuto che l’elemento di partenza è un dato rituale. Esso suppone il suono del corno d’ariete che scandiva l’inizio di un anno particolare, nel decimo giorno del mese autunnale di Tishri, corrispondente circa al nostro settembre-ottobre, mese in cui cadeva anche il Kippur. È interessante notare che nella lingua fenicia, per certi versi la sorella maggiore dell’ebraico, la stessa radice, ossia le tre consonanti che sono alla base della parola jobel, cioè jbl, indica il «capro», una componente significativa proprio del Kippur. Non vi è quindi dubbio che il suono del corno, il suo segnare un tempo sacrale, sia alla base del termine «giubileo», ma non va dimenticata la tensione che porta verso l’altro polo, quello della traduzione greca: non si tratta solo di un rito, è un elemento che deve incidere profondamente nell’esistenza di un popolo. Dopo questa premessa, cerchiamo di raccogliere e illustrare alcuni temi fondamentali giubilari che appaiono per certi versi intrecciati tra loro. 

Il riposo della terra 

Secondo il testo biblico il primo tema piuttosto originale è il «riposo» della terra. Stando allo schema sabbatico, con cui era misurato il tempo all’interno della tradizione biblica, già ogni sette anni si faceva riposare la terra. Secondo le indicazioni di Levitico, 25, la terra doveva riposare anche nell’anno giubilare, che seguiva sette settimane di anni, cioè nel cinquantesimo. L’impegno sembrerebbe piuttosto improponibile e di ardua applicazione. È possibile far riposare la terra per un anno, soprattutto in una civiltà come quella dell’antico Vicino Oriente, dove le esigenze erano molto minori delle nostre e la vita molto più frugale. Ma far riposare la terra per due anni di seguito (il quarantanovesimo sabbatico e il cinquantesimo giubilare), in un’economia sostanzialmente di tipo agricolo, avrebbe messo in crisi la stessa sopravvivenza. Quindi, o l’anno giubilare veniva fatto coincidere col settimo anno della settima settimana, oppure il giubileo più che un’attuazione concreta era soprattutto un auspicio, un segno utopico, uno sguardo oltre il consueto modo di vivere. Far riposare la terra vuol dire non seminarla e non raccoglierne i frutti. Questa scelta, da un lato, fa scoprire che la terra è un dono, perché, sia pure in minor quantità, qualcosa essa riesce comunque a produrre. I suoi frutti saranno più striminziti, ma non mancheranno. Si ricorderebbe, così, che i cicli della natura non dipendono solo dal lavoro dell’uomo ma anche dal Creatore. È la memoria di un altro primato, quello trascendente. Dall’altro lato, in questo periodo si cerca di superare la proprietà privata e tribale perché ognuno poteva prendere dalla terra ciò che essa offriva, senza rispettare le frontiere e i recinti del catasto. È, in pratica, il riconoscimento della destinazione universale dei beni per cui tutto è disponibile per tutti. Questo tema può acquisire un grande significato anche nell’odierna società. In essa l’umanità può essere rappresentata da una tavola imbandita nella quale ci sono alcuni, da una parte, che hanno un cumulo esagerato di beni, e il resto dei popoli dall’altra, una moltitudine che sta a guardare e può godere solo degli scarti e delle briciole. Non c’è più l’idea della disponibilità universale dei beni, antecedente a ogni proprietà privata. In questa luce è suggestivo rimandare alle riflessioni proposte al riguardo dall’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco

La remissione dei debiti e la restituzione delle terre 

Il secondo tema, altrettanto originale, è la remissione dei debiti e la restituzione in pristinum (al primitivo proprietario) dei terreni alienati e venduti. Nella visione biblica, la terra era un possesso non del singolo ma delle tribù e delle famiglie claniche, ciascuna delle quali aveva un suo territorio particolare. Esso era stato donato durante la famosa ripartizione della terra dopo la conquista di Canaan, come si legge nel libro di Giosuè (cc. 13-21). Tutte le volte che, per varie ragioni, il clan perdeva la propria terra, si veniva meno, in un certo senso, alla divisione voluta da Dio. Col giubileo, ossia ogni mezzo secolo, si ricostruiva la mappa della terra promessa, così come l’aveva voluta Dio, attraverso il dono divino della divisione del paese tra le tribù d’Israele. Tutti allora avevano ricevuto la loro porzione, tranne la tribù di Levi, che viveva con i contributi offerti dalle altre tribù per il suo servizio al tempio. Per i debiti si verificava sostanzialmente la stessa cosa. All’inizio dell’arco temporale giubilare tutti si ritrovavano uguali, con gli stessi pochi beni. Successivamente, però, alcuni avevano perso i loro beni per disgrazia, altri per pigrizia o per incapacità. Dopo cinquant’anni si decideva di ritornare al punto di partenza, facendo sì che tutti si ritrovassero a un livello di assoluta, ideale, utopica comunione dei beni nella parità. Tutto diventava ancora comune e veniva distribuito secondo le varie tribù. Ogni famiglia otteneva, così, di nuovo i suoi beni, le sue terre e tutti i suoi figli. In un appello del libro del Deuteronomio, tale rinnovamento sociale viene continuamente proposto all’ebreo perché lo consideri come il modello sociale da vivere, pur nella consapevolezza che si tratti di un progetto ideale mai raggiungibile pienamente. Infatti, nel libro del Deuteronomio si legge: «Non vi sia in mezzo a voi alcun bisognoso [...] e se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello bisognoso, non indurire il tuo cuore e non chiudere la tua mano» (15, 4.7). Una scelta che non è soltanto di adesione ideale alla fraternità e alla solidarietà ma che implica la concretezza della «mano», cioè l’azione, l’impegno sociale concreto. Si ricordi il profilo della comunità cristiana di Gerusalemme nella quale — come ribadisce a più riprese Luca negli Atti negli apostoli — «nessuno diceva sua proprietà ciò che gli apparteneva, ma ogni cosa era per loro comune» (4, 32). 

La liberazione degli schiavi 

Il terzo tema strutturale al giubileo biblico è altrettanto incisivo e impegnativo. Quello giubilare era l’anno della remissione non solo dei debiti ma anche della liberazione degli schiavi. Il libro di Ezechiele (46, 17) parla del giubileo come dell’anno dell’affrancamento, del riscatto, l’anno in cui coloro che erano andati a servizio per sopravvivere alla miseria ritornavano alle loro case, con i debiti rimessi e con la riappropriazione della loro terra e della loro libertà. Si tornava a essere il popolo dell’esodo, il popolo libero dalla cappa di piombo della schiavitù e delle discriminazioni. Anche in questo caso si trattava di una proposta ideale, destinata a creare una comunità che non avesse più al suo interno legami di prevaricazione degli uni sugli altri, non avesse più ceppi ai piedi e potesse camminare unita verso una meta. È evidente come la sua attualità valga anche per la nostra storia nella quale si registra un numero sterminato di forme di schiavitù: le tossicodipendenze, la tratta delle prostitute, lo sfruttamento minorile a livello lavorativo o sessuale e pedopornografico e tante altre feroci forme di soggezione. Si può pensare inoltre a tutti quei popoli che sono praticamente schiavi delle superpotenze perché con i loro debiti non sono assolutamente in grado di essere arbitri del proprio destino; l’attività di certe multinazionali è spesso una vera forma di tirannide economica che opprime alcune nazioni e società. Il risuonare della parola giubilare della libertà ha quindi un grande significato anche nel nostro tempo, e lo ha considerando pure il richiamo alla liberazione di tipo interiore. Si può, infatti, essere liberi esteriormente ma internamente schiavi attraverso certe catene invisibili, quali a esempio i condizionamenti sociali della comunicazione di massa, della superficialità, della volgarità, delle dipendenze dall’infosfera. In un passo del libro di Geremia (34, 14-17), con forza il profeta spiega il crollo e la riduzione in schiavitù di Gerusalemme e della Giudea, a opera dei babilonesi nel 586 avanti Cristo, proprio come giudizio di Dio sul fatto che gli ebrei non avevano liberato gli schiavi in occasione del giubileo. L’egoismo aveva fatto sì che la grande norma della libertà non fosse stata praticata, e come conseguenza si era attuata una sorta di pena del contrappasso da parte di Dio che aveva reso schiavo Israele. 

Il giubileo di Gesù 

Agli inizi della sua predicazione pubblica, secondo il Vangelo di Luca, Cristo era entrato nella modesta sinagoga del suo villaggio, Nazaret. In quel sabato si leggeva un testo isaiano (c. 61) ed era toccato proprio a lui proclamarlo e commentarlo. Attraverso quelle parole egli si era presentato come inviato dal Padre per inaugurare un giubileo perfetto da distendere in tutti i secoli successivi e che i cristiani avrebbero dovuto celebrare in spirito e verità: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore» (Luca, 4, 18-19). È questa l’altra radice — oltre a quella anticotestamentaria — del giubileo cristiano. Nelle parole di Gesù l’orizzonte dell’anno santo diventa il paradigma della vita del cristiano che si allarga e abbraccia tutte quelle sofferenze che sono il programma della missione di Cristo e della Chiesa. L’«anno di grazia del Signore», cioè della sua salvezza, comprende quattro gesti fondamentali. Il primo è «evangelizzare i poveri»: il verbo greco è proprio quello che ha alla base la parola evangelo, la «buona novella», il «lieto messaggio» del Regno di Dio. Destinatari sono i “poveri”, cioè gli ultimi della terra, coloro che in sé non hanno la forza del potere politico ed economico ma hanno il cuore aperto all’adesione di fede. Il giubileo è destinato a riportare al centro della Chiesa gli umili, i poveri, i miseri, coloro che esternamente e interiormente dipendono dalle mani di Dio e da quelle dei fratelli. La libertà è il secondo atto giubilare, un atto che — come si è visto — era già nel giubileo di Israele. Gesù, però, fa riferimento anche ai prigionieri in senso stretto e metaforico e qui si anticipano quelle parole che egli ripeterà nella scena del giudizio alla fine della storia: «Ero carcerato e siete venuti a trovarmi» (Matteo, 25, 36). Il terzo impegno è ridare «la vista ai ciechi», un gesto che Gesù ha spesso compiuto durante la sua esistenza terrena: pensiamo solo al celebre episodio del cieco nato (Giovanni, 9). Era questo, secondo l’Antico Testamento e la tradizione giudaica, il segno della venuta del Messia. Infatti, nell’oscurità in cui è avvolto il cieco non c’è solo l’espressione di una grande sofferenza ma anche un simbolo. C’è, infatti, una cecità interiore che non coincide con quella fisica ed è l’incapacità di vedere in profondità, con gli occhi del cuore e dell’anima. Una cecità difficile da diradare, forse più di quella fisica, che attanaglia tante persone nelle cui anime dev’essere immesso un raggio di luce. Infine, come quarto e ultimo impegno, si propone la liberazione dell’oppressione che non è solo la schiavitù a cui sopra si faceva cenno riguardo al giubileo ebraico ma comprende tutte le sofferenze e il male che opprimono il corpo e lo spirito. È ciò che attesterà l’intero ministero pubblico di Cristo. Meta ideale del giubileo cristiano autentico è, quindi, questa tetralogia spirituale, morale, esistenziale.

 

L'Osservatore romano 

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MATERNITA' SURROGATA ?

QUESTIONE 
DI 
DIGNITA'

- di Giuseppe Savagnone

Il documento della Chiesa

 Uno dei punti più discussi del recente documento della Congregazione per la Dottrina della fede «Dignitas infinita» è stata la presa di posizione contro la pratica della maternità surrogata o gestazione altri (GPA), attraverso la quale si dice «il bambino diventa un mero oggetto». Nel testo si cita anche papa Francesco, secondo cui essa «è fondata sullo sfruttamento di una situazione di necessità materiale della madre» e che auspica «un impegno della Comunità internazionale per proibire a livello universale tale pratica». 

 Dure le reazioni negative. «Dire che chi ricorrere alla gestazione per altri considera i bambini come oggetti è svilente. E lo trovo un’offesa personale»,  ha commentato Andrea Rubera, portavoce dell’associazione cristiana LGBT “Cammini di speranza” e papà di tre bambini avuti con la GPA.

 Un atto d’altruismo o un business?

Alla gestazione per altri, in realtà, ricorrono più spesso coppie etero con problemi di sterilità. Ma per quelle gay, ovviamente, essa è l’unico modo di avere dei figli. Secondo Giuseppina La Delfa, figura storica di militante per i diritti degli omosessuali e fondatrice delle «Famiglie Arcobaleno», si tratta di una conquista fondamentale: «Secondo me il desiderio di genitorialità è un desiderio umano presente in ogni persona (…).

 Noi persone omosessuali per troppo tempo abbiamo dovuto rinunciare a essere genitori, non per indole personale ma perché ci era in qualche modo imposta una sterilità sociale obbligatoria. È stata difficile da combattere per tanto tempo ma per fortuna e grazie a Famiglie Arcobaleno, oggi tante persone omosessuali che desiderano avere figli riescono a concretizzare quel loro desiderio di famiglia».

 Questo grazie ad una donna che provvede alla gestazione cedendo in anticipo alla coppia committente, con un apposito contratto, il bambino. Sottoponendosi a una serie di regole di alimentazione e di comportamento, rigidamente previste nello stesso contratto, per tutelare la salute del nascituro. La fecondazione può essere effettuata con spermatozoi e ovuli sia della coppia sterile, sia di donatori e donatrici attraverso concepimento in vitro.

 È possibile trovare su Internet la pubblicità delle agenzie specializzate che cercano donne in giovane età e con particolari caratteristiche fisiche, disposte a prestarsi a questo scopo. La motivazione ufficiale è di solito di fare un gesto di altruismo. «La maternità surrogata non si fa per il profitto, la tua motivazione deve essere solo il desiderio di aiutare gli altri!», si legge, ad esempio, cliccando su X l’annuncio pubblicato dal British Surrogacy Centre.

 Su questa linea, l’Associazione Luca Coscioni, nel marzo del 2023, ha presentato una proposta di legge volta a disciplinare una forma di gravidanza altruistica. Come spiega la segretaria nazionale dell’Associazione, Filomena Gallo, «resta il divieto di Gestazione per Altri commerciale in conformità con il quadro normativo italiano ed è previsto il rimborso delle sole spese che riguardano la gravidanza».

 Per contro, c’è chi non condivide questa esaltazione della gratuità. Secondo la stessa La Delfa, «desiderare una GPA altruistica e senza scambi di denaro non solo è mostrare di vivere al di là del mondo reale, ma è anche un’opzione estremamente pericolosa: è solo dare l’opportunità ai delinquenti e criminali di ogni genere di schiavizzare davvero le donne e usare i loro grembi a fine di lucro. Che le femministe non lo capiscano mi è del tutto incomprensibile».

 Per lei, insomma, «la gratuità è una grande menzogna: c’è un prezzo da pagare per qualsiasi cosa, e il denaro non è sporco specie se serve a dare gioia e felicità».

 In effetti, basta andare sulla rete per rendersi conto che siamo davanti alla logica di qualunque prestazione commerciale. Se si scorre la pagina del British Surrogacy Centre sopra citata, si scopre che la “madre surrogata” può guadagnare da 25mila a 40mila dollari per la sua prestazione

 Alla stessa logica si ispirano i siti che offrono questa pratica alle coppie. Su uno di essi, «Success», si legge: «Noi offriamo programmi di maternità surrogata e donazione di ovociti, sperma ed embrioni, che siamo pronti ad avviare subito senza lista d’attesa, ai prezzi accessibili, con la garanzia della qualità e del successo»  Non è la terminologia del dono, ma quella del mercato.

 Così, negli Stati Uniti, dove la GPA è legale in diversi Stati, ci sono centri medici che garantiscono agli aspiranti genitori la possibilità di scegliere – sulla base di un catalogo in cui vengono raccolte le caratteristiche fisiche ed estetiche delle possibili donatrici di ovuli – il colore degli occhi, dei capelli e della pelle del figlio che si desidera avere.

 «A seconda della quantità e della complessità di scelte, il costo per la scelta del figlio “perfetto” varia: si parte da una base di 140 mila euro fino ad oltre 250 mila euro per un pacchetto super completo».

 Ormai, però, la pratica è diffusa in tutto il mondo e si espande velocemente. «Una stima del Global Market Insights, di dicembre 2022, valuta il mercato mondiale in 14 miliardi di dollari e stima che entro il 2032 arrivi a 129 miliardi di dollari».

 E il mercato, inesorabilmente, si basa sui meccanismi di una offerta e di una domanda determinate dal bisogno. Non a caso per quanto riguarda la prima, sono spesso i paesi più poveri a dare la disponibilità per questa pratica. In Europa, sono Ucraina, Grecia e Georgia le nazioni dove la maternità surrogata è più ampiamente praticata.

 Il dibattito all’interno del movimento femminista

Si capisce, allora, perché in realtà non sia solo la Chiesa ad essere molto critica nei confronti della maternità surrogata.

 Nel febbraio del 2016 si è tenuto in Francia un convegno per l’Abolizione universale della maternità surrogata («Assises pour l’Abolition universelle de la Gpa»), organizzato da Sylviane Agacinski, voce storica del femminismo francese.

 La Agacinski usava già allora espressioni molti simili a quelle che poi avrebbe ripreso la «Dignitas» infinita»: «È stupefacente, e contrario ai diritti della persona e al rispetto del suo corpo, il fatto che si osi trattare una donna come un mezzo di produzione di bambini.

 Per di più, l’uso delle donne come madri surrogate poggia su relazioni economiche sempre diseguali: i clienti, che appartengono alle classi sociali più agiate e ai Paesi più ricchi, comprano i servizi delle popolazioni più povere su un mercato neo-colonialista. Inoltre, ordinare un bambino e saldarne il prezzo alla nascita significa trattarlo come un prodotto fabbricato e non come una persona umana. Ma si tratta giuridicamente di una persona e non di una cosa».

 Anche in Italia una nota esponente femminista come Luisa Muraro, filosofa e fondatrice della «Libreria delle donne» di Milano, ha preso una posizione duramente negativa: «Non esiste un diritto di avere figli a tutti i costi, eppure ce lo vogliono far credere (…). L’utero in affitto si innesta in questa tendenza (…). È la strada attuale per lo sfruttamento del corpo delle donne»

 Nel dicembre 2015 l’Associazione femminista «Se non ora quando» ha lanciato un appello contro la maternità surrogata. A sottoscriverlo sono state persone dello spettacolo, come Stefania Sandrelli e Claudio Amendola, intellettuali come Giuseppe Vacca e Dacia Maraini, rappresentanti dell’associazionismo.

 «Noi rifiutiamo», diceva il testo «di considerare la “maternità surrogata” un atto di libertà o di amore (…). Non possiamo accettare, solo perché la tecnica lo rende possibile, e in nome di presunti diritti individuali, che le donne tornino a essere oggetti a disposizione».

 Su questa linea si pone la petizione intitolata «La maternità surrogata è una pratica che offende la dignità delle donne e i diritti dei bambini», rivolta al parlamento italiano, alla fine di maggio 2023, dalla rete No GPA, coordinata da Aurelio Mancuso, ex segretario Arcigay.

Il documento porta le firme di centinaia di persone appartenenti agli ambiti sociali e politici più disparati: psicologi, filosofi, avvocati, docenti universitari, imprenditori, amministratori. Ci sono figure di primo piano del femminismo, come Adriana Cavarero, Francesca Izzo, Alessandra Bocchetti, personalità politiche come Pierluigi Castagnetti e Goffredo Bettini, esponenti dell’associazionismo come Flavia Franceschini, Segreteria ArciLesbica Milano, e Cristina Gramolini, presidente ArciLesbica nazionale, persino attiviste di Resistenza Femminista.

 Nell’appello si ricordano le sentenze n. 272 del 2017 e n. 33 del 2021 della Corte costituzionale, secondo le quali «la gestazione per conto di altri (…) offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane, assecondando un’inaccettabile mercificazione del corpo, spesso a scapito delle donne maggiormente vulnerabili sul piano economico e sociale»

 In questa luce sembra ingiusta l’accusa, rivolta da molti alla «Dignitas infinita», di essere una obsoleta forma di chiusura al nuovo.

 Paradossalmente, su questo punto, essa rappresenta piuttosto una difesa, al fianco di qualificati movimenti femministi, dei diritti delle donne. Assolutamente in linea con la condanna, contenuta nello stesso documento, di ogni forma di violenza nei loro confronti. Perché forse anche ridurre il corpo femminile a una incubatrice è una violenza  – Marx aveva parlato di “reificazione” (riduzione a res, a “cosa”) dell’essere umano – , anche se a questa la società capitalista ci ha così abituato da farcela considerare una forma di progresso.

*Scrittore ed Editorialista. Pastorale della Cultura Arcidiocesi Palermo

www.tuttavia.eu


GENEROSITA' e SOLIDARIETA'

 Il Papa: generosità e solidarietà come risposta a individualismo e indifferenza

Francesco riceve in udienza i membri della Papal Foundation che sostiene diversi progetti educativi, caritativi e apostolici della Chiesa e assegna borse di studio a laici, sacerdoti e religiosi per studiare a Roma. I suoi programmi, sottolinea il Pontefice ringraziando l'ente benefico, "promuovono un legame spirituale e un legame fraterno con persone di molte culture, lingue e regioni diverse che ricevono assistenza"

-        -  di Tiziana Campisi – Città del Vaticano

Esprime il suo grazie Papa Francesco nel discorso ai membri della Papal Foundation, ricevuti in udienza, nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico, in occasione del loro pellegrinaggio annuale a Roma. È, infatti, con il sostegno offerto dall’organizzazione benefica “a progetti educativi, caritativi e apostolici” che viene favorito lo “sviluppo integrale”, soprattutto di “poveri, rifugiati, immigrati” e anche di “un numero crescente di persone colpite dalla guerra e dalla violenza”. Ed è, inoltre, attraverso borse di studio che la Fondazione consente “a laici, consacrati, seminaristi e sacerdoti di Paesi in via di sviluppo” di proseguire gli studi nelle Università Pontificie di Roma. In oltre venti anni sono già 1700 le persone che ne hanno beneficiato, ricevendo in questo “gli strumenti per testimoniare più efficacemente il Vangelo sia nei loro Paesi d’origine sia altrove”.

Mediante queste diverse e lodevoli iniziative, voi continuate ad aiutare i Successori di Pietro a far crescere numerose Chiese locali e a prendersi cura di tante persone svantaggiate, in risposta alle consegne affidate dal Signore all’Apostolo. Per tutta la vostra generosità, esprimo la mia più sentita gratitudine.

Una solidarietà alimentata dalla fede cattolica

Quello della Papal Foundation è un lavoro che “trova la sua sorgente e la sua ispirazione” nella fede cattolica, la quale, sottolinea Francesco, deve “essere continuamente alimentata dalla partecipazione alla vita della Chiesa, dai Sacramenti e dal tempo trascorso in silenzio alla presenza del Signore nella preghiera e nell’adorazione”.

 Non dimenticate di adorare: la preghiera dell’adorazione, noi l’abbiamo trascurata; dobbiamo riprenderla. Adorare, in silenzio.

Un legame fraterno con tante persone

Il Papa ricorda che la Chiesa si sta preparando a celebrare il Giubileo del 2025 con l’Anno della Preghiera. Perseverando nella preghiera si diventa “a poco a poco ‘un cuore solo e un’anima sola’ sia con Gesù che con gli altri”, aggiunge Francesco, e questo “si traduce in solidarietà e condivisione del nostro pane quotidiano”.

I programmi della Papal Fondation promuovono un legame spirituale e un legame fraterno con persone di molte culture, lingue e regioni diverse che ricevono assistenza. Il vostro servizio è tanto più necessario nel nostro tempo, segnato dall’individualismo e dall’indifferenza.

I nuovi impegni della Fondazione

La Papal Foundation ha annunciato che quest’anno devolverà 14,7 milioni di dollari in sovvenzioni, borse di studio e aiuti umanitari per il servizio del Papa e della Chiesa cattolica nel mondo. Più dettagliatamente, l'ente distribuirà 9.921mila dollari in sovvenzioni a supporto di 118 progetti per i più poveri in oltre 60 Paesi e devolverà 819mila dollari in borse di studio che permetteranno a più di 100 sacerdoti, religiose e seminaristi di studiare a Roma con il Programma di Borse di Studio San Giovanni Paolo II. La Fondazione fornirà, infine, anche aiuti umanitari attraverso il suo Fondo per le missioni, stanziando 4 milioni di dollari in fondi di emergenza per i periodi di crisi, per sfamare gli affamati, curare gli ammalati e offrire ospitalità ai senzatetto. Dalla sua nascita, la Papal Foundation, unica organizzazione caritatevole negli Stati Uniti a dedicarsi esclusivamente alle necessità della Chiesa cattolica, ha stanziato oltre 225 milioni di dollari per più di 2400 progetti.

 Vatican News

SALVARE LA LINGUA ITALIANA

 

Le preoccupazioni della Accademia della Crusca: 
«L'italiano è una responsabilità di tutti»



-di Laura Perina

Il linguista Paolo D'Achille, presidente dell'Accademia della Crusca, l'istituzione dedita allo studio e alla conservazione della lingua italiana è intervenuto all'università di Verona per una lezione aperta dal titolo «L'italiano a inizio millennio fra tradizione e innovazione»

«L'inglese, che ha un ruolo riconosciuto come lingua della comunicazione scientifica internazionale, tende a espandersi un po' troppo all'interno delle varie nazioni. Per esempio, che all'università ci siano corsi di studio esclusivamente in inglese fa sì che l'italiano perda delle porzioni importanti di lessico che sono indispensabili perché una lingua sia pienamente tale. La comunicazione scientifica è il rischio più grande che corre oggi l'italiano».

 A esprimere questa preoccupazione è il linguista Paolo D'Achille, presidente dell'Accademia della Crusca, l'istituzione dedita allo studio e alla conservazione della lingua italiana. Ospite dell'ateneo di Verona per una lezione aperta dal titolo «L'italiano a inizio millennio fra tradizione e innovazione», D'Achille ha rilanciato la presa di posizione espressa anche qualche settimana fa in una lettera inviata alla ministra dell'università e ricerca, Annamaria Bernini, non condividendo la progressiva eliminazione della lingua italiana dagli insegnamenti universitari.

 «L'italiano è una responsabilità di tutti», ha ribadito nell'aula gremita del Polo Zanotto, introdotto dai saluti del prorettore dell'università di Verona Diego Begalli e di Arnaldo Soldani, direttore del Dipartimento culture e civiltà che ha organizzato l'appuntamento culturale.

 Interpellato sulla situazione attuale della nostra lingua italiana e sulla sua prossima evoluzione, ha detto: «È importante che non vi siano rivendicazione dei dialetti a porsi come lingue altre», ha puntualizzato D'Achille. «Certamente i dialetti vanno tutelati, e la Crusca stessa li studia e li mette in comunicazione con l'italiano», ha sottolineato, «ma l'italiano come lingua nazionale deve essere difesa, come tutte le altre lingue nazionali europee, che sono lingue di cultura con una forte tradizione letteraria e di scrittura. E questa tradizione, debitamente aggiornata, deve essere mantenuta».

 


venerdì 12 aprile 2024

IPERDOTATI A SCUOLA

...  E NELLA SOCIETA'

Nella scuola dell’inclusione gli iperdotati restano ai margini.

Oggi il creativo fa paura

 perché non è controllabile.  

Non solo a scuola. 

Anche nella vita sociale e associativa.

 Un dispendio di risorse, preziose per costruire il futuro.

Quarant’anni fa la nascita della “Emilio Trabucchi”, che per nove anni, fino al 1993, è stato il primo e finora unico esempio di realtà dedicata ai bambini con un’intelligenza superiore. Parla la fondatrice e psichiatra Federica Mormando

 

 -         di PAOLO FERRARIO

 «Per ogni area del sapere ognuno poteva frequentare corsi adatti al suo livello, non c’erano programmi uguali per tutti, eccetto quelli ministeriali, necessari per sostenere gli esami, che però erano talmente facili ed embrionali da non creare difficoltà». Quarant’anni dopo, la psichiatra e psicoterapeuta, Federica Mormando, ricorda così l’esperienza della scuola “Emilio Trabucchi”, nel suo ultimo libro “Bambini e ragazzi ad alto potenziale”, una «guida per genitori» (ma anche per insegnanti), pubblicata per le edizioni Red! Fondata a Milano nel 1984 dalla stessa Mormando, per nove anni, fino alla cessazione nel 1993, la scuola “Trabucchi” è stata la prima e, finora, unica, esperienza di scuola dedicata ai bambini iperdotati, quelli che, spiega la psichiatra, ai test di livello rivelano prestazioni «significativamente superiori» rispetto a quelle di altre persone «della stessa età e zona geografica». In termini molto concreti, stiamo parlando del 5% della popolazione, per quanto riguarda i “molto dotati” e del 3% per gli “iperdotati”. Uno spaccato della scuola (e della società in generale), nemmeno così marginale, che però, spesso, non trova nella scuola un ambiente davvero stimolante e inclusivo. «Quando si parla di bambini e ragazzi ad alto potenziale, si prende generalmente a riferimento il quoziente intellettivo – spiega Mormando –. E questo è molto sbagliato. Perché, per esempio, un grande dono artistico, di solito non coincide con un gradissimo potenziale intellettivo. Inoltre, questi test non misurano, per fortuna, l’intelligenza intuitiva, quella che arriva a una soluzione saltando i processi logici. Non misurano i doni artistici e l’intelligenza creativa».

Tutte doti che non sempre sono riconosciute e sono persino causa di problemi per chi le possiede. «L’alto potenziale – ricorda la psichiatra – viene spesso confuso con delle patologie. Così, per il bambino particolarmente dotato, che non si trova bene in classe perché si annoia alla ripetizione di nozioni che capisce facilmente, che preferisce stare da solo, l’insegnante suggerisce uno spettro autistico, il cosiddetto “autismo ad alto funzionamento”, termine che mi fa rabbrividire, perché non siamo macchine. Altri, invece, alla noia reagiscono agitandosi e ciò fa suggerire un disturbo dell’iperattività, chiamato Adhd. E si finisce dall’insegnante di sostegno».

Un passaggio non necessario, secondo Mormando. «A questi bambini – prosegue l’esperta – non serve l’insegnante di sostegno, ma docenti preparati e, per esempio, capaci di ampliare il programma per venire incontro anche alle loro esigenze. Ma la scuola non è attrezzata a fare questo passaggio. Servirebbe una scuola per piccoli gruppi in cui formare la mente. Fornendo metodi di ricerca ed entusiasmo per il sapere».

Così, quarant’anni fa, era organizzata la scuola “Trabucchi”, dedicata a “bambini intelligenti”, tra i 3 e gli 11 anni. «Per i più piccoli usavamo il metodo Montessori. Si seguivano i tempi di ogni bambino e gli alunni si mettevano spontaneamente in piccoli gruppi per apprendere le diverse materie, in aule a questo dedicate. Infine, ogni tre mesi chiamavo qualcuno di molto severo che li interrogasse. Così i bambini si abituavano e non avere paura del voto». Oggi, di quell’esperienza, sono «rimasti gli ex allievi», con cui la professoressa Mormando è ancora in contatto. «Ho cercato di dar loro un equilibrio perché fossero contenti di studiare, che non crescessero fragili, perché abituati ad affrontare cose difficili – ricorda Mormando –. Non ho notizia di nessuno che sia assatanato di potere, ma tutti hanno avuto vite soddisfacenti e ottimi lavori». Un passaggio, quest’ultimo, affatto scontato. Perché, avverte la psichiatra «avere un grande cervello non garantisce assolutamente il successo». «Senza una personalità e degli obiettivi, non serve a niente – conclude Mormando –. Anzi. Di solito si arriva a qualcosa di alto, ma non al successo altissimo, che prevede di piacere alla massa e di partecipare a riunioni molto noiose. 

Una dispersione di energie che non fa parte dei desideri delle persone molto intelligenti. Oggi il creativo fa paura perché non è controllabile».

 

www.avvenire.it


 

CERCATORI DI SENSO


Le nuove generazioni si allontanano dalla Chiesa, ma non si spegne la sete di spiritualità Dall’indagine dell’Istituto Toniolo, la sfida rappresentata dall’«esodo silenzioso» delle ragazze

 L’ultima ricerca realizzata dall’ente fondatore dell’Università Cattolica si mette in ascolto di chi “se n’è andato”.

 Ma continua a sognare una comunità ecclesiale accogliente e gioiosa

 

-     -    di LORENZO  ROSOLI

 

L’esodo silenzioso delle giovani donne dalla Chiesa e dalla fede cattolica. Il “caso serio” costituito dal rapporto fra comunità ecclesiale, fede dei giovani, apertura ai credenti Lgbt+. La sete e la ricerca di spiritualità che continuano ad abitare la vita di chi ha abbandonato la Chiesa e la fede nelle sue forme tradizionali – anche quando è una spiritualità senza Dio, o con un Dio senza nome, e che sempre meno spesso ha il nome di Gesù. Le contiguità e le consonanze di interrogativi, giudizi, idee – su Dio, la Chiesa, la fede, la vita, la morte, l’etica, la sessualità – fra i giovani che hanno lasciato e quelli che sono rimasti. Sono molteplici – e tutti urgenti, provocatori, potenzialmente fecondi – i motivi d’interesse della ricerca raccolta nel volume “Cerco, dunque credo? I giovani e una nuova spiritualità” (Vita e Pensiero, 2024) curato da Rita Bichi e Paola Bignardi, promosso dall’Istituto Toniolo – l’ente fondatore dell’Università Cattolica, nella cui sede milanese è stata presentata l’indagine (si veda: Avvenire, sabato 6 aprile 2024).

 I numeri dell’esodo. L’allontanamento dei giovani dalla Chiesa e dalla fede cattolica è una tendenza che il Rapporto Giovani realizzato dal 2013 ogni anno dall’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo registra con fedeltà. Nel 2013 i giovani che si dichiaravano cattolici erano il 56,2% e nel 2023 il 32,7%. Negli stessi anni i giovani che si dicono atei sono passati dal 15% al 31%. Ancora più significativo il mutamento fra le giovani donne: quelle che si dichiarano cattoliche sono passate dal 62% al 33%, quelle che si dichiarano atee dal 12% al 29,8%. E se il trend continuasse così? Secondo i dati comunicati da Paola Bignardi presentando la ricerca in Cattolica, sul totale dei giovani italiani i cattolici sarebbero il 18% nel 2033 e il 7% nel 2050, le giovani cattoliche il 17% nel 2033 e il 6% nel 2050. «Un dato particolarmente interessante, forse in linea con l’evolvere della sensibilità spirituale – ha sottolineato Bignardi –: aumenta la percentuale dei giovani che dichiarano di credere in una generica entità superiore ma senza far riferimento a nessuna religione: nel 2023 sono il 13,4%; nel 2020 erano l’8,7%; nel 2016 il 6,2%».

 Dalle cifre alle storie. I numeri dicono molto. Ma non tutto. Ecco, allora, l’importanza di mettersi in ascolto dei giovani che hanno lasciato la Chiesa e la fede per conoscere e condividere i vissuti, i motivi e le dinamiche dell’abbandono, come ha fatto l’Istituto Toniolo con quest’ultima indagine (si veda box a lato). Nelle parole dei giovani, il ritratto di una Chiesa istituzione lontana dalla vita, più brava a giudicare che ad ascoltare e accogliere, più “azienda” che comunità dove sperimentare una fede e una spiritualità che sanno rispondere alla vita e alle sue domande di senso. Questi giovani «hanno difficoltà a riconoscersi negli insegnamenti della Chiesa, nella sua visione della vita e soprattutto nei suoi insegnamenti morali – scrive Bignardi –. Particolarmente presente è il tema dell’omosessualità; chi vive questa esperienza parla del suo essersi sentito giudicato e rifiutato; chi guarda la questione dall’esterno ritiene discriminatorie le posizioni della Chiesa e in contrasto con i suoi insegnamenti». Linguaggi e liturgia fanno sentire estranei. E l’abbandono della Chiesa è in genere graduale, consapevole, solo in alcuni casi “arrabbiato”.

 Fra religione e spiritualità. Nelle parole di quegli stessi giovani c’è però anche nostalgia per la fede e la comunità cristiana. E c’è il sogno di una Chiesa aperta, plurale, libera e liberante, povera e vicina ai poveri, al dolore, alle fragilità: una Chiesa giovane e gioiosa, fa sintesi Giovanna Canale, docente, in uno dei contributi raccolti nel libro. I giovani lasciano la Chiesa, ma non sempre la fede, né la ricerca spirituale. Interiorità, natura, connessione i tre “luoghi spirituali” che emergono dalle interviste. Che sembrano confermare quanto scrive il teologo Tomáš Halík: «La sfida principale per il cristianesimo ecclesiale di oggi è il cambiamento di rotta dalla religione alla spiritualità».

 L’addio delle giovani donne. Fra i nodi incandescenti che emergono dall’indagine, quello che Fabio Introini e Cristina Pasqualini chiamano «l’esodo silenzioso delle giovani donne »: iniziato con la Generazione X (le nate fra 1965 e 1979), proseguito con le Millennials (1980-1995), continua con la Generazione Z (1996-2010). Per troppo tempo la Chiesa ha considerato le donne una presenza scontata, dovuta, ancillare all’establishment maschile. E oggi? Ragazze e giovani donne faticano a trovare ascolto e risposte alle loro esigenze, alle loro attese, al loro vissuto. Dall’iniziazione cristiana all’oratorio, troppe cose sono a misura di maschio. Le “dinamiche dell’abbandono” parlano di percorsi “emancipativi” e «profondamente legati alla mobilità innescati dai percorsi di carriera di studio e lavoro ». Che portano a contatto con la complessità della vita e dell’umano. E sono «la matrice di nuove domande di senso ma anche le fonti di nuovi saperi che fanno breccia nella precedente visione del mondo». L’addio, in genere non polemico, si fa “arrabbiato” «in riferimento al rapporto che l’istituzione ecclesiale mantiene con la comunità Lgbtq+ o in merito alla questione dell’aborto», e quando si toccano «la sfera della corporeità, della sessualità, delle relazioni di coppia e della maternità», scrivono Introini e Pasqulini. La fede pare “protestantizzarsi”: non nel senso di una “individualizzazione” ma «per via del suo “trasformarsi” nel perseguimento del proprio “Beruf” di weberiana memoria, vale a dire il pieno compimento della propria vocazione “intramondana” nell’esercizio motivato e totalizzante del lavoro». Infine: le giovani intervistate, abituate a non avere spazio decisionale nella Chiesa, non lo rivendicano: hanno imparato a farne a meno. E a fare a meno della Chiesa. Ma la Chiesa può fare a meno delle donne? Come vivere e annunciare il Vangelo – e come essere Chiesa – senza di loro?

 

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